GRANDE ZIMBABWE LE MISTERIOSE ROVINE DELL’IMPERO AFRICANO

by ArcheoWorld
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Tra leggende salomoniche sulla Regina di Saba e ipotesi archeologiche che riportano al popolo Bantu degli Shona, le mitiche rovine di pietra della città di Great Zimbabwe, Patrimonio UNESCO dal 1986, rappresentano uno dei siti più antichi, imponenti, complessi e meglio conservati di tutta l’Africa Australe pre-coloniale, ma in parte ancora avvolti dal mistero.

Le rovine furono descritte da diversi esploratori portoghesi del XVI secolo; all’epoca il sito era già abbandonato. Nel 1531 Viçente Pegado, capitano della guarnigione portoghese di Sofala, descrisse il luogo in questo modo:

Fra le miniere d’oro delle pianure fra i fiumi Limpopo e Zambesi c’è una fortezza fatta di pietre di incredibili dimensioni, e che non sembrano essere unite da malta… L’edificio è circondato da colline, su cui se ne trovano altri, simili al primo per il tipo di pietra e l’assenza di malta; uno di essi è una torre alta più di 12 braccia (22 m).

La descrizione di Pegado venne ripresa da João de Barros nel suo libro “Da Asia” (1552), in cui descriveva i possedimenti portoghesi nel mondo. Barros, che non era ma istato a Grande Zimbabwe, sostenne che le rovine fossero quelle della città di Axuma, possedimento della biblica Regina di Saba, e che le miniere nei dintorni della città fossero quelle meravigliose attribuite a Re Salomone. Grande Zimbabwe fu poi dimenticata per qualche centinaio d’anni. Le rovine furono ritrovate nel 1867, durante una battuta di caccia, da Adam Renders, che nel 1871 le mostrò al geologo Karl Mauch. Mauch non trovò di meglio che avallare la spiegazione di Barros, arrivando a sostenere che vi si riconoscevano chiaramente “una copia del tempio di Salomone e una copia del palazzo della Regina di Saba”. Il mito di Grande Zimbabwe come città di Salomone o della Regina di Saba continuò in seguito a circolare in Europa per lungo tempo.

Karl Gottlieb Mauch (Stetten, 7 maggio 1837 – Stoccarda, 4 aprile 1875) è stato un esploratore tedesco.

BIOGRAFIA

Nacque nella piccola città di Stetten im Remstal, nella attuale Germania. La sua famiglia non era ricca, e – nonostante il giovane Mauch provasse grande interesse per la storiografia e la geografia e in particolare per l’esplorazione (aveva una vera e propria ossessione per l’Africa, all’epoca un continente quasi inesplorato) – egli non poté iscriversi all’università per mancanza di denaro. Affascinato dai racconti biblici riguardanti il Re Salomone e la Regina di Saba e convinto che il leggendario palazzo di quest’ultima si trovasse in Africa, era deciso a intraprendere un viaggio per
trovarlo. Dedicò ben 11 anni alla preparazione del suo viaggio, raccogliendo abbastanza denaro, studiando l’inglese, il latino e leggendo i resoconti dei primi esploratori portoghesi che visitarono le coste africane durante l’età delle scoperte.

Si preparò anche fisicamente, percorrendo tutte le mattine lunghe distanze a piedi e abituandosi a digiunare per lunghi periodi, nonché acquisendo pratica nella scherma e nell’uso delle armi. Inviò una lettera al direttore di una nota rivista di geografia tedesca, August Petermann, chiedendo sovvenzioni per il suo viaggio, ma la risposta fu negativa. Mauch arrivò a Durban, in Sudafrica, nel 1865, e cominciò la sua ricerca. Nel 1867 scoprì diversi giacimenti di oro, il che confermava la sua idea che il Palazzo della Regina di Saba dovesse essere vicino. Fu inoltre lo scopritore del Monte Bismarck, che dedicò al grande cancelliere e alla Germania da poco unificata. Il suo rapporto con le tribù indigene fu difficile, gli capitò perfino di essere preso prigioniero dai nativi, ma infine fu proprio grazie al loro aiuto che nel 1871 scoprì un complesso architettonico noto ora con il nome di Grande Zimbabwe. Mauch, non avendo i mezzi necessari, compì solo un’analisi superficiale del sito, osservando le costruzioni e confrontando resti di porte di legno con la sua matita di cedro. 

Il diario originale di Karl Mauch

Alla fine del XIX secolo il magnate britannico Cecil Rhodes conquistò buona parte degli odierni Zambia e Zimbabwe (ribattezzati Rhodesia settentrionale e meridionale). Rhodes fondò una società per la ricerca archeologica a Grande Zimbabwe, la Ancient Ruins Company, affidando il lavoro all’archeologo James Theodore Bent. Bent pubblicò le proprie osservazioni nel 1891 nel saggio The Ruined Cities of Mashonaland. Secondo Bent, i reperti “provavano” che la città non poteva essere stata edificata da africani e che probabilmente si trattava di vestigia di origine fenicia o araba. Questa linea era in perfetto accordo con gli interessi di Rhodes, che non era incline ad accettare l’idea che gli africani potessero aver dato luogo a una “civiltà” come quella che aveva creato Grande Zimbabwe. Conclusioni simili a quelle di Bent furono raggiunte pochi anni dopo da un altro archeologo, Richard Hall, nel suo saggio The Ancient Ruins of Rhodesia (1902).

Cecil John Rhodes (Bishop's Stortford, 5 luglio 1853 – Muizenberg, 26 marzo 1902)

Il primo archeologo a smentire la teoria dell’origine non-africana della civiltà di Grande Zimbabwe fu il britannico David Randall-MacIver, che condusse i primi scavi scientifici in loco fra il 1905 e il 1906. Nel suo saggio Medieval Rhodesia, Randall-MacIver osservò che molti degli artefatti ritrovati erano di origine certamente africana. In seguito a questa affermazione, gli inglesi bloccarono gli studi archeologici a Grande Zimbabwe per circa un ventennio. Nel 1929 gli scavi furono ripresi da Gertrude Caton Thompson, che nel 1931 pubblicò The Zimbabwe Culture: Ruins & Reactions, un saggio in cui mostrava che la cultura di Grande Zimbabwe era non solo africana, ma chiaramente correlata a quella del popolo Shona. A causa della disputa sull’origine africana o non africana delle rovine, correlata dal potere coloniale al tema della capacità dei neri di dar luogo a una “civiltà”, Grande Zimbabwe divenne per gli independentisti della Rhodesia un simbolo dell’affrancamento dal potere bianco. Robert Mugabe, eletto nel 1980 come primo presidente nero della Rhodesia del Sud, decise di modificare il nome del paese in Zimbabwe per enfatizzare la continuità fra il nuovo stato e la tradizione culturale e politica africana.

Non ci si aspetterebbe mai di imbattersi nelle rovine di una enorme città risalente al Medioevo nell’Africa meridionale, eppure un tempo nell’attuale Zimbabwe esisteva un centro abitato tra i più floridi che siano mai esistiti. Quel che resta di Great Zimbabwe oggi sono le incredibili testimonianze di una vera e propria metropoli che, per motivi non ben precisati, a un certo punto è letteralmente scomparsa, svuotandosi di ogni sua attività e abitante. Le rovine di Grande Zimbabwe si estendono in un’area di 7 km². Site a un’altitudine di 1100 m s.l.m., nell’altopiano di Harare (20°16’23″S, 30°56’04″E), distano circa 250 km dalla capitale dello Zimbabwe. Sono fra le più antiche e imponenti strutture architettoniche dell’Africa del Sud precoloniale. La zona con più grande densità di rovine archeologiche è quella della moderna Bahlengwe, tra lo Zambesi a nord e nord-ovest e il medio corso del Limpopo a sud.

L’origine esatta del nome non è nota. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che la parola sia una contrazione di ziimba remabwe (o ziimba rebwe), che in chiKaranga (un dialetto della lingua shona) significa “le grandi case costruite con macigni”. Una seconda teoria fa derivare il nome da un altro dialetto dello Shona, lo Zezuru; in questo caso, la parola “Zimbabwe” potrebbe essere una contrazione di dzimba woye, che significa “le case venerate” (espressione che in genere viene usata per riferirsi alle abitazioni o alle tombe dei capi). Se la parola deriva dalla lingua shona e non da un dialetto, infine, potrebbe essere una contrazione di dzimba dza mabwe, col significato di “case di pietra”. I resoconti dei primi Portoghesi che giunsero nella zona riportano Symboa, col significato di “corte”, come denominazione data al luogo dai nativi; questo dato potrebbe essere coerente con la prima interpretazione menzionata sopra, in quanto nella cultura locale i “macigni” erano spesso associati alle abitazioni dei regnanti e quindi al concetto di “corte” come potevano intenderlo gli Europei.

Complessivamente, il sito di Grande Zimbabwe comprende diversi bastioni, una torre conica, alcuni templi e altre costruzioni minori, tutte in pietra. Sebbene gli edifici siano realizzati con diversi tipi di pietra (forse in funzione dello status del proprietario), la maggior parte delle mura sono costruite da blocchi quadrangolari o trapezoidali di granito, preparati con martellatura a mezzo di utensili in pietra. Gli effetti decorativi sono stati ottenuti con lastre di roccia più scura inserite nella massa grigiastra del granito, a spina di pesce o a capriate, oppure incisi direttamente nella pietra. Non vi sono tracce di malta o cemento; la stabilità era ottenuta sfruttando l’ondulazione del terreno e la presenza di rocce su cui far poggiare le mura, o creando gradinate di sostegno.

Le rovine rivelano un piano urbanistico suddiviso in due parti: il complesso della collina e i complessi delle valli. Il complesso sulla collina era probabilmente il centro rituale della città; vi si trovano diverse aree chiuse da mura di pietra. Il re viveva in una zona più appartata (forse allo scopo di proteggerlo da malattie contagiose come la malattia del sonno), nella valle. L’edificio regale viene chiamato imba huru (il “grande recinto”, talvolta detto anche impropriamente “il tempio”); la sua cinta muraria è quasi totalmente conservata.

IL CENTRO RITUALE DEL COMPLESSO DELLA COLLINA
IL GRANDE RECINTO DEL COMPLESSO DELLE VALLI

Il muro principale della cinta è alto 10 m e lungo 250 m circa, per un totale di 15.000 tonnellate di pietra. La collocazione storica esatta delle rovine non è certa. In genere si ritiene che la maggior parte degli edifici siano stati costruiti in due fasi: fra il X e l’XI secolo la prima, e fra il XIII ed il XV secolo la seconda. Il radiocarbonio data alcuni reperti in legno a partire dal VII secolo; probabilmente si tratta di tracce della presenza umana nella zona prima dell’edificazione delle strutture in pietra. I reperti in ceramica che provano il commercio con l’Oriente sono databili fra l’VIII e il XV secolo. Si ritiene che Grande Zimbabwe sia stata la città principale di un vasto impero, detto impero di Monomotapa, formatosi a partire dal VII secolo nella regione intorno al lago Kyle, fra il Matabeleland e il Manicaland, e poi giunto a controllare buona parte degli odierni Zimbabwe e Mozambico. La quantità di edifici fa ritenere che la città, alsuo massimo splendore, ospitasse circa 20.000 abitanti. L’etnia a cui appartenevano gli abitanti della città non è certa. I terrazzamenti rinvenuti a nord-est del sito fanno pensare a culture provenienti dall’Oceano Indiano o dal Madagascar; altri reperti mostrano che gli abitanti di Grande Zimbabwe conoscevano l’estrazione mineraria e l’irrigazione, elementi che farebbero ipotizzare l’influenza di culture più settentrionali.

Le affinità con vestigia mozambicane fanno pensare a una continuità culturale di una vasta fascia dell’Africa centrale. Oggi si ritiene che la città sia stata certamente costruita da un popolo appartenenti al vasto gruppo bantu, sebbene sia molto difficile identificare quale. Diverse etnie locali (per esempio gli Shona, i Venda e i Lemba) sostengono di essere i discendenti del popolo di Zimbabwe. In particolare, un clan Lemba viene addirittura chiamato dagli altri clan Tovakare Muzimbabwe, “coloro che costruirono Zimbabwe”. Non tutti gli studiosi, comunque, ritengono che l’etnia a cui si deve la fondazione della città debba necessariamente coincidere con quella dei suoi abitanti nel periodo di massimo splendore. Il ritrovamento di reperti come frammenti di ceramica cinese e persiana, monete arabe e altri oggetti di origine straniera fanno pensare che Grande Zimbabwe sia stata un importante nodo di una vasta rete commerciale che raggiungeva l’estremo Oriente. La presenza di miniere nei dintorni fa pensare che la popolazione locale commerciasse soprattutto in oro.

Nessuno sa di preciso per quale motivo il sito fu abbandonato. Gli abitanti potrebbero essere stati costretti ad allontanarsi da un prolungato periodo di siccità e carestia, da un’epidemia, o semplicemente da una situazione di crisi economica legata al declino del commercio dell’oro. Si ipotizza anche che la città (e l’impero) siano stati travolti a più riprese da migrazioni di popoli provenienti dal nord.

Ci sono vari misteri sul Grande Zimbabwe, che l’interpretazione archeologica ortodossa non può spiegare. Uno riguarda la cosiddetta Fortezza di collina sopra il complesso primario di rovine. È gravemente carente come una struttura militare. Ci sono entrate controllate, ma ci sono anche diversi punti deboli in cui gli attaccanti possono facilmente penetrare nella fortezza e il lato nord- occidentale è praticamente indifeso. Inoltre, non ci sono fonti naturali di acqua all’interno del forte in cima alla collina, rendendolo vulnerabile agli assedi. Un altro mistero riguarda la mancanza di sepolture nelle vicinanze delle rovine. Se al Grande Zimbabwe esisteva una popolazione stabile, la maggior parte dei suoi morti non erano sepolti lì. Una delle implicazioni della rarità delle sepolture è che il Grande Zimbabwe è stato progettato principalmente per uso rituale e forse ha ospitato permanentemente solo alcuni sacerdoti.

Infine, vi sono prove convincenti, presentate dall’archeo-astronomo Richard Wade, dell’Osservatorio Nkwe Ridge di Johannesburg, secondo cui il sito potrebbe essere stato utilizzato come osservatorio astronomico. Al centro della sua conclusione c’è la posizione dei monoliti di pietra sull’arco orientale del Grande Recinto.

Forse il più controverso, Wade crede di sapere perché sia stata costruita una torre conica che in precedenza aveva sconcertato gli archeologi. “La torre conica si allinea perfettamente con la supernova che è stata esplosa a Vela, da 700 a 800 anni fa“, dice. I documenti storici non ne fanno menzione, un’omissione che non sorprende Wade da quando la stella morente apparve nell’emisfero australe, che all’epoca non aveva praticamente culture letterarie. Ma le leggende orali nella regione danno credito all’idea della supernova, ha detto Wade. Il popolo Sena dello Zimbabwe racconta che i suoi antenati migrarono dal nord seguendo una stella insolitamente luminosa nei cieli meridionali.

Riguardo alle miniere d’oro più antiche, esse sono nello Zimbabwe del Sud: le leggende Zulù affermano che erano utilizzate da “schiavi di carne e sangue prodotti artificialmente e creati dalla Prima Gente“! Questi schiavi, raccontano le leggende Zulù, “scesero in battaglia con l’Uomo Scimmia” quando “la grande guerra stellare apparve nel cielo“. Uno storico sudafricano e uomo di medicina Zulù, tale Credo Mutwa Vusamazulu, ha pubblicato vari libri sull’argomento tra cui Indaba figli miei, racconti popolari africani (Vusamazulu Credo Mutwa, Indaba my children: african folk tales, Paperback, 1999)

Credo Mutwa di Vusamazulu
Indaba my children: african folk tales (Paperback, 1999)

GALLERIA FOTOGRAFICA

IL GRANDE RECINTO DELLA VALLE

IL CENTRO RITUALE DELLA COLLINA

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