Nan Madol è uno straordinario sito archeologico monumentale che costituisce uno dei grandi misteri della storia e un notevole elemento di disturbo per le solide certezze della scienza “ufficiale”, la quale, non riuscendo a spiegarlo, preferisce continuare a ignorarlo. Si trova sull’isola di Pohnpei, che in precedenza si chiamava Ponapé, la cui superficie, compresa quella degli isolotti antistanti, misura appena 347 km quadrati situata in pieno Oceano Pacifico, a enormi distanze dalle terre continentali più vicine: la Nuova Guinea e l’Australia verso sud-ovest, le Filippine e l’Asia orientale verso ovest. Disabitata per secoli ed oggi proclamata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, è fa parte delle Isole Caroline, un vasto arcipelago della Micronesia raggiungibile solo con un volo di 10 ore dalle Hawaii e una serie di scali tra gli atolli.
Fu scoperta da navigatori portoghesi nel 1595. Passata di mano dalla Spagna alla Germania nel 1899; occupata dai Giapponesi nel 1914; invasa dagli Stati Uniti nel corso della seconda guerra mondiale. Il 22 dicembre 1990 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha posto fine alla tutela degli Stati Uniti, che però, in base all’accordo di libera associazione del 1986, continuano a curare le relazioni estere e la difesa dell’arcipelago. Secondo gli storici e gli archeologi di formazione accademica, non avrebbe dovuto prosperare nessuna civiltà capace di erigere monumenti del genere in questa remota parte del mondo.
Nan Madol è un sito unico nel suo genere in quanto è l’unica città antica conosciuta costruita in cima ad una barriera corallina ma, soprattutto, per il modo in cui è stata edificata. In passato il luogo portava il nome di Soun Nal-Leng, ossia “scogliera del cielo” e le leggende della Micronesia affermano che i massi giunsero sul posto in volo. La zona delle rovine è sorprendentemente estesa per una lunghezza di oltre 24 km e costituita da circa 90 isole artificiali collegate da una rete di canali. Nan Madol, significa “luogo dello spazio”, un termine ambiguo che potrebbe significare molte cose.
Le strutture erette nella città furono realizzate assemblando grosse travi di basalto colonnare (si stimano oltre 400.000 travi alcune delle quali superano in grandezza e in peso i blocchi della piramide di Cheope.) in uno schema contrapposto in modo da costituire mura alte fino a 10 mt.
Il basalto colonnare è una particolare forma di roccia vulcanica che durante il raffreddamento può assumere la forma di un prisma esagonale o ottagonale. Gli archeologi stimano che il peso complessivo di tutto il basalto utilizzato per edificare la città raggiunga i 250 milioni di tonnellate! In media, ogni blocco può pesare fino a 50 tonnellate.
Questo aspetto confonde gli archeologi: come è stato possibile posizionare in questo modo blocchi di basalto così pesanti? Ad oggi, non esistono spiegazioni esaustive su come gli antichi abitanti di Nan Madol abbiano potuto erigere la loro città di pietra, dato che la dinastia Saudeleur, l’unica etnia (conosciuta), che ha regnato su Pohnpei tra il 500 e il 1500 d.C., non conosceva le pulegge, le leve e nemmeno il metallo. Per costruire la città, i pohnpeiani avrebbero dovuto posizionare circa 2000 tonnellate di pietra all’anno, per 400 anni senza sosta. Costituiscono un enigma anche le “pietre da catapulta” perfettamente levigate e grandi quanto un uovo di struzzo rinvenute fra le rovine, dacché in tempi storici la catapulta non fu una macchina di guerra nota ai micronesiani. Aperture praticate nel suolo immettono in camere sotterranee. Per molti archeologi, la città lagunare rappresenta un mistero inspiegabile. Leggende dei nativi riferiscono di un tempio sommerso noto come “Il Regno dei Re del Sole” abitato dai giganti Kauna, caduti dal cielo in tempi antichi, e da nani preistorici. Si parla anche di una complicata rete di gallerie sottomarine che, partendo dal porto di Nan Madol collegherebbero tra loro le varie isole dell’arcipelago e che condurrebbero ad altre due antiche città sommerse, costruite, in un tempo indeterminato, dagli dei, con l’aiuto di una magia in grado di sollevare in aria le grandi pietre.
Ancor oggi i micronesiani non osano inoltrarsi a Nan Madol per timore degli spiriti di “uomini con la pelle così dura che li si sarebbe potuti ferire soltanto colpendoli agli occhi”. Può darsi però che questo sia il ricordo di uno sbarco e di successivi scontri con i portoghesi, che nel 1595 incrociavano in queste acque, e che la “pelle dura” di cui parlano fossero semplicemente le armature che li proteggevano. La maggior parte delle costruzioni (mura, strade, canali) giace sommersa nel mare che le circonda; quindi è possibile che Nan Madol rappresenti le vestigia di una cultura del Mari del Sud, scomparsa per una catastrofica inondazione e della quale ignoriamo sia l’epoca che l’origine.
Nonostante tutto, strano a dirsi, le problematiche relative a Nan Madol sono poco conosciute anche fra i cultori eterodossi della storia e dell’archeologia e perfino fra i patiti del mistero ad ogni costo, quelli sempre pronti a tirare in ballo l’eredità di Atlantide, ogni volta che ci s’imbatte in un elemento anomalo rispetto alle nostre attuali conoscenze. È come se quelle enormi costruzioni semisepolte nella giungla e nel mare, delle quali non sappiamo praticamente nulla di certo, semplicemente non esistessero. Forse, a ritardare l’esigenza di uno studio serio e approfondito posto dalle rovine di Nan Madol, ha contribuito il fatto che uno dei pochi ad occuparsene è stato, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, un personaggio che non godeva di alcun credito presso la scienza “ufficiale”: il colonnello britannico James Churchward, convinto sostenitore del continente perduto di Mu e controverso studioso delle cosiddette tavolette Naacal, trovate in alcune località dell’India e, poi, nella Mesoamerica, scritte in un linguaggio sconosciuto e che lui stesso avrebbe decifrato, ricavandone informazioni sconcertanti sulla storia più antica dell’umanità.
Nel suo libro “The Lost Continent of Mu” (1926), Churchward così si esprime circa i resti spettacolari dell’isola di Ponapé:
Qui si trova ciò che considero il reperto più importante tra quelli rinvenuti in tutta l’area dei Mari del Sud. Si tratta delle rovine di un grande tempio, una struttura che misura 90 metri di lunghezza e 18 di larghezza, con mura che nel 1874 erano alte nove metri e che a livello del suolo presentavano uno spessore di un metro e mezzo. Sulle pareti sono tuttora visibili i resti di alcune incisioni che rappresentano molti simboli sacri di Mu. L’edificio presentava canali e fossati, sotterranei, passaggi e piattaforme, il tutto costruito in pietra basaltica. Sotto il pavimento di forma quadrangolare vi erano due passaggi di circa 9 metri quadrati, posti l’uno di fronte all’altro, che conducevano a un canale. Al centro della vasta superficie quadrangolare si trovava la stanza piramidale, senza dubbio il sancta sanctorum. Secondo le leggende indigene, molte generazioni fa, il tempio venne occupato dai superstiti di una nave pirata che aveva fatto naufragio. Resti umani si trovano tuttora in uno dei sotterrane che i fuorilegge avevano usato come magazzino. Nessun nativo si avvicina volentieri alle rovine, che hanno fama di essere infestate da spiriti malvagi e fantasmi chiamati Mauli. A Ponape vi sono anche altri reperti, alcuni adiacenti alla costa, altri sulla sommità delle colline, alcuni addirittura in radure al centro dell’isola; tutti però sono accomunati dal fatto di essere stati eretti in zone da cui era possibile vedere l’oceano. In una radura c’è un cumulo di pietre, che occupa una superficie di cinque o sei acri e che pare essere collocato su una base sopraelevata; intorno ad esso si notano i resti di ciò che un tempo poteva essere un fossato o un canale. Ai quattro angoli delle rovine, che corrispondono ai puti cardinali, i mucchi di pietre sono più alti, dal che si desume che l’edificio aveva presumibilmente forma quadrata. Personalmente ritengo che i resti di Ponape appartengano a una delle città principali della Madrepatria, forse una delle Sette Città sacre. È impossibile stimarne la popolazione, di certo era una città di grandi dimensioni, forse abitata da centomila persone.
Non è possibile dire, allo stato presente delle nostre conoscenze, se vi sia qualche cosa di vero nelle teorie del colonnello Churchward; se, cioè, Nan Madol sia una delle vestigia del mitico continente scomparso di Mu, terra madre delle civiltà umane. Rimane il mistero di quel gigantesco complesso megalitico proteso tra la montagna e il mare, nel quale parzialmente si inabissa; e abbandonato, chissà in qualche epoca, in una maniera tanto repentina quanto definitiva.
Secondo l’archeologo Mark D. McCoy, della Southern Methodist University (SMU) di Dallas, USA, che ha eseguito un recente studio, Nan Madol costituisce la chiave per studiare il passaggio delle antiche società da semplici in complesse. Utilizzando per la datazione il metodo uranio-torio, significativamente più preciso del metodo del radiocarbonio usato in precedenza, è stata calcolata l’età degli edifici in basalto del sito; in particolare, l’età di una “tomba” che è il primo esempio di sepoltura monumentale in quelle remote isole. La più grande ed elaborata struttura della città che misura ben 80 metri per 60 (in pratica, le misure di un campo di calcio), un’altezza di 8 metri ed ha le pareti esterne di 1,5 metro di spessore medio. Un labirinto di pareti interne protegge una cripta sotterranea ricoperta, a sua volta, di basalto. Si è giunti alla datazione con il metodo dell’uranio-torio, in base alla quantità degli isotopi torio-230 e uranio-234 presenti. La datazione con l’uranio offre una maggiore accuratezza, potendola usare sul corallo, con un’incertezza di pochi anni in più o in meno dalla morte del corallo, a differenza del radiocarbonio con cui l’intervallo di incertezza sale a 100 anni in più o in meno.
Se Nan Madol non fosse stata costruita con quel tipo di pietra corallina non saremmo stati in grado di fornire una datazione così precisa. La ricerca futura dovrà essere indirizzata a capire cosa ci fosse realmente alla base di questa antica civiltà, così misteriosamente evoluta da essere in grado di erigere edifici monumentali così imponenti. Una nuova datazione delle costruzioni in pietra di Nan Madol, nell’isola di Pohnpei, suggerisce che l’antica città, costruita sulla barriera corallina in pieno Oceano Pacifico, sia stata la capitale della prima isola della Micronesia ad essere governata da un unico capo.
Non resta che continuare a indagare, con mente sgombra da pregiudizi; senza scartare a priori alcuna possibilità, per una malintesa forma di ossequio verso le certezze “ufficiali” degli storici e degli archeologi. È già accaduto che popoli e imperi importantissimi della storia antica, come quello degli Ittiti, siano emersi praticamente dal nulla. È già accaduto e, piaccia o no agli studiosi arroccati nelle proprie certezze accademiche, potrebbe ancora accadere. Altri siti archeologici anomali come il “muro” di Bimini nelle Bahamas, o come il complesso sommerso di Yonaguni, nelle Ryu-Kyu, scoperto solo alla fine degli anni Novanta del Novecento (che alcuni archeologi datano fra il 4.000 e l’8000 a.C., rivoluzionando tutte le nostre certezze), sembrano rinviare a una diversa distribuzione delle terre emerse in lontane epoche e, forse, alla presenza di civiltà delle quali, fino ad ora, non sappiamo praticamente nulla.
James Churchward e il continente Mu
James Churchward, nacque il 27 febbraio 1851 nelle zone rurali del Devon. Forse fu un simpatico pazzo, un imbroglione ma sicuramente non uno sciocco come testimonia la sua carriera professionale. Certo, non aveva alcuna conoscenza di archeologia, ma non fu questa mancanza a impedirgli di specializzarsi nello studio delle società precolombiane. Prima di diventare uno scrittore molto fantasioso, aveva esercitato i suoi talenti in campi vari perché se c’è una costante nella vita di Churchward, è il deposito di brevetti che gli permise, nel campo delle ferrovie, se non di fare fortuna, almeno di vivere a proprio agio.
Insaziabilmente curioso quando si trattava di approfondire i misteri delle civiltà precolombiane, Churchward ebbe un incontro nel 1890 che si rivelò decisivo nella sua vita; quell’anno si strinse a fianco di Augustus Leplongeon (4 maggio 1825-13 dicembre 1908), allora un famoso ma molto controverso specialista della civiltà Maya. Dobbiamo a questo fotografo, archeologo e antiquario francese un notevole lavoro di conservazione dei glifi Maya. Leplongeon pensava che dallo Yucatan i Maya si fossero irradiati fino all’Asia e poi fino all’Egitto e che questi stessi Maya fossero quindi all’origine di tutte le società antiche. Gli stessi (i Maya) erano i sopravvissuti di un continente perduto, Atlantide, che Leplongeon chiamava Mu perché così veniva chiamato – secondo lui – sui glifi Maya.
Questa storia alquanto assurda non era caduta nel vuoto da parte di Churchward che cercò di saperne di più su questo continente perduto. Se Atlantide fosse una vecchia storia che risale a Platone, perché i Maya l’avrebbero chiamata Mu? Non poteva essere un altro continente più antico, vera culla dell’umanità? Entro la fine del 19° secolo, un altro continente estinto aveva fatto notizia, Lemuria, che si credeva esistesse nell’Oceano Indiano. Churchward vide in tutte queste “rivelazioni” la prova che aveva bisogno di cercare. E affermò di averlo trovato leggendo alcune tavolette d’argilla incise in India in una lingua dimenticata, la lingua Naacal. Scrittura sconosciuta all’umanità tranne a tre saggi, incluso un vecchio prete indiano che gli tradusse questi glifi che rivelavano l’esistenza del continente Mu. Dall’altra parte del Pacifico, un missionario francese considerato un pioniere dell’archeologia in qualche modo fantasioso, Charles Etienne Brasseur de Bourbourg (1814-1874), studiò le scritture Maya e annunciò di averne decifrato il significato. Fu il primo ad affermare che un continente Mu esisteva una volta ed è l’origine dell’umanità moderna, come rivela il Codice Troano (antico libro Maya).
De Bourbourg aveva anche tradotto in francese il Popol Vuh, un testo mitologico maya considerato alquanto carente in altri documenti, come la Bibbia di questi nativi americani. Churchward vide nelle affermazioni di Brasseur de Bourbourg la conferma che le sue presunte tavolette di Naacal dicevano davvero la verità, tavolette che nessuno, tranne lui, ha mai visto da allora. Gli bastava immergersi, tra visite sul campo e studi di tutta la documentazione che poté avere, nella genesi dell’Umanità, convinto che sarebbe riuscito a portare alla luce la verità, verità finora nascosta agli uomini che avevano perso la conoscenza dei loro antenati. Nel 1921, un mineralogista diventato archeologo, William Niven, portò alla luce tavolette incise in Messico che non avrebbero mai potuto essere decifrate; ma Churchward si impadronì di questi testi per affermare che aveva potuto leggerli e che raccontavano quello che era stato il continente Mu (le tavolette scomparvero negli anni Trenta, durante il loro trasporto tra il Messico e gli Stati Uniti).
L’intera fine della vita del nostro “scopritore di continenti” fu quindi quasi interamente dedicata a rivelare, senza fornire la minima prova, i segreti di Mu. A 75 anni pubblicò finalmente il frutto del suo lavoro, “Mu, il continente perduto, la Patria degli Uomini”. Per quanto stravaganti fossero le sue rivelazioni, furono un grande successo presso un pubblico amante del sensazionalismo. Senza entrare nei dettagli di questo lavoro, Mu si estendeva all’incirca dall’Isola di Pasqua alle Isole Fiji, comprese le Isole Hawaii a nord.
Quello che vediamo su una mappa corrisponde grosso modo a quello che oggi viene chiamato il triangolo polinesiano; Churchward credeva che la Nuova Zelanda fosse un’ex colonia di Mu, il continente essendo stato inghiottito dal Pacifico a seguito di vari terremoti devastanti, eruzioni vulcaniche e altre onde di marea. Un paradiso perduto dell’umanità, abitato da 64 milioni di Naacal scomparsi nella distruzione, ma con alcuni superstiti che sopravvissero ancora ai margini del loro continente, in colonie che fondarono su tutta la Terra. Questi sopravvissuti dettero vita alle grandi civiltà dell’Asia, dell’America Centrale e del Sud America, e persino le civiltà babilonese, persiana ed egiziana. Questi Naacal custodirono la loro conoscenza dimenticata che ebbe il proprio culmine intorno al 50.000 a.C.
E se non fosse solo un mito: Zealandia
Un vero e proprio continente, che una volta emergeva dalle acque e che ora è completamente sommerso. Da anni i geologi si dividono sulla presunta esistenza della Zealandia, le cui uniche terre emerse rimanenti sarebbero costituite dalla Nuova Zelanda e dalla Nuova Caledonia. La comunità scientifica ne discute da tempo, anche perché c’è chi lo considera di fatto il settimo continente del mondo e chi invece nega questa ‘autonomia’ dall’Oceania. Uno studio, pubblicato sulla rivista Geology, ha provato a spiegare l’origine della Zealandia. Secondo i ricercatori, questo continente sarebbe nato da due eventi tettonici molto violenti: in un periodo compreso tra 60 e 85 milioni di anni fa, questa massa terrestre si sarebbe sganciata da un supercontinente chiamato Gondwana, da cui si sarebbero originati anche l’attuale Australia, il Mar di Tasmania e l’Antartide.
Secondo la nuova teoria elaborata dai geologi, in un periodo compreso tra 35 e 50 milioni di anni fa, questo continente sarebbe sprofondato di un chilometro e, in una tale situazione di tensione, si sarebbero formati diversi strati al di sotto del livello del mare. Questo spiegherebbe anche la formazione di diversi vulcani sottomarini in tutta l’area occidentale dell’oceano Pacifico. Lo studio pubblicato su Geology spiega che la rottura di subduzione si sarebbe propagata per tutta l’area, probabilmente tramite un lungo sciame sismico che avrebbe attivato nuove faglie e quindi nuovi movimenti tettonici. Eventi del genere, d’altronde, possono alterare la geografia dei continenti. Quanto accaduto in Zealandia, secondo gli autori dello studio, avrebbe potuto modificare il clima globale oltre alla direzione e al movimento di tutte le placche tettoniche del nostro pianeta. Per giungere a queste conclusioni, i ricercatori hanno raccolto e analizzato diversi tipi di sedimenti fino a 864 metri di profondità. Ruther Sutherland, geofisico dell’università Victoria di Wellington, in Nuova Zelanda, è il principale autore dello studio ed ha spiegato: “Una delle cose più sorprendenti è che i primi segnali della Cintura di Fuoco risultano essere quasi simultanei tra loro in tutta l’area occidentale del Pacifico”. C’è però qualcosa che non torna: il periodo considerato è precedente alla riorganizzazione globale delle placche tettoniche e i ricercatori non capiscono come la subduzione possa essere iniziata in un’area così ampia e in così poco tempo. Per questo, la teoria dei geologi riguarda un nuovo meccanismo: un “evento di rottura di subduzione”, simile ad un lentissimo sciame sismico diffuso lungo un’area decisamente estesa e in grado di ‘ravvivare’ le faglie più antiche, rimaste inattive per lunghi milioni di anni.
2 comments
Estremamente curioso che, nella quindicesima immagine, quella riportante i simboli decifrati da Churchward, il primo simbolo sia l’esatta raffigurazione del segno Ra (il cerchio con il punto in mezzo) che in Egiziano antico significa Sole e rappresenta appunto il Dio del Sole Ra.
Il quarto segno è molto simile ad un cartiglio a doppia ellisse riportante all’interno altri 4 segni che potrebbe essere un nome in quanto, sempre in egiziano antico all’interno dei cartigli si potevano scrivere solo i nomi dei faraoni.
Anche il primo e il secondo segno della seconda riga ricordano in modo impressionante dei geroglifici egizi, il primo ricorda il palazzo reale, il secondo il modo di contare (anni di regno ?).
Potrebbe essere che la scrittura egizia derivi da quella di Mu ? O che più plausibilmente le due civiltà siano convissute e influenzate a vicenda ? Questo spiegherebbe tante cose.
I simboli, e la loro interpretazione, restano molto controversi in quanto Churchward non fornì mai prove concrete riguardo alla loro veridicità. Quindi qualsiasi teoria basata su di essi non da alcuna affidabilità. Nonostante ciò altri casi dimostrerebbero la presenza di geroglifici egizi in altre parti del mondo. Da qui ad immaginare una correlazione di qualsiasi tipo fra l’antico Egitto e il continente Mu sarebbe fuorviante proprio per l’inconsistenza di quest’ultimo.