L’osservazione degli innumerevoli resti lasciati dagli Incas, soprattutto a Cusco, Sacsayhuaman, Ollantaytambo, Machu Picchu, tra gli altri, mostrano sulle grandi pietre che formano le pareti, dei segni, come dei marchi di fabbrica. Molti sono come graffi, tagli e curiose protuberanze, la cui realizzazione avrebbe potuto essere possibile solo se fossero stati sottoposti a un sistema straordinario e perfetto di intaglio o di un metodo ancora più incredibile sul quale c’è stato un gran parlare nel corso del tempo. I primi a restarne sorpresi furono i Conquistadores che effettuarono l’impresa della conquista del Perù. Non riuscivano a capire come fosse possibile che tra le giunture delle perfette mura Inca di Cusco, non si potesse nemmeno inserire il filo di un rasoio. Non riuscivano a capire come fossero state scolpite le pietre colossali di Sacsayhuaman, per molti una fortezza militare, per altri un complesso sacro, per altri un osservatorio celeste ma per altri un gigantesco enigma dalla grandezza pari alle sue dimensioni.









Rimasero pieni di dubbi e perplessità quando entrarono nel Coricancha, la sacra sede del dio del sole Inca, dove furono abbagliati, non tanto dall’oro che trovarono gli Spagnoli, ma dalla perfezione delle sue forme architettoniche. Le pietre delle pareti sembravano essere state saldate insieme! Chi si reca a Cuzco, può trovare quasi nel centro storico della città, molto vicino a Plaza de Armas o Plaza Mayor, quello che gli Incas chiamavano Huacaypata. Sulla Avenida del Sol, c’è uno dei più emblematici siti della antica capitale Inca, la Chiesa di Santo Domingo. Proseguendo si arriva al Coricancha, il mítico Templo do Sol, il cui nome in Quechua significa “recinto d’oro”, la casa di Inti, la divinità principale dell’Impero Inca. Qui le guide spiegano ai turisti che gli spagnoli usarono persino la dinamite nel tentativo di abbattere muri di pietra che nemmeno i terremoti possono gettare a terra.



Nonostante l’inclemenza del tempo e degli uomini, queste bellissime pietre rosse e blu andesite sono sopravvissute per la meraviglia dei locali e degli stranieri. Gli esperti non sanno come siano state sollevate, ma queste mura rigonfie, sembrano tutte d’un pezzo. In che modo gli Incas riuscirono ad adattare quei giganteschi blocchi di pietra, di diverse forme e dimensioni, in maniera così perfetta?

Per secoli, la capacità dell’uomo andino di scolpire pietre e costruire mura in grado di resistere all’infinito, è rimasta coperta dalla nebbia del mito. La scienza, nel suo tentativo di risolvere l’enigma, si è letteralmente rotta la testa contro i muri Inca. L’archeologia tradizionale, che non supporta considerazioni che vadano oltre i suoi rigidi dogmi, ne ha fatto le spese e non ha avuto migliore idea che ricorrere alla tesi trita e ritrita delle pietre scolpite con scalpelli e martelli, perché non concepisce che la tecnologia antica peruviana ha conosciuto ben altro che l’arco e la freccia. Antiche leggende andine sostengono che gli antichi costruttori avevano scoperto un “ingrediente segreto”, ricavato dal succo di una pianta, che avrebbe permesso loro di corrodere e fondere la pietra in modo da renderla malleabile. Osservando le colossali pietre delle megalitiche rovine Inca, ci chiediamo come sia stato possibile farle combaciare perfettamente, in ogni lato e sulle superfici, come siano state trasportate in luoghi per lo più inaccessibili. È comunque impensabile che siano state poggiate una sopra, o accanto, all’altra, misurate, tagliate più volte, fino a farle combaciare perfettamente.




La famosa pietra a 12 angoli è l’espressione della maestria avanzata raggiunta dai costruttori incaici nella lavorazione della pietra. È molto conosciuta e ciò che la rese famosa è la presenza di dodici angoli con i quali si integra perfettamente con le pietre che la circondano e che formano una parte del muro della strada Hatun Rumiyoc (parola quechua che significa “Grande pietra”), nel centro di Cuzco.
Non esistono testimonianze circa l’esistenza, nel passato, di macchinari idonei ad eseguire simili operazioni. Ricordiamo che, oltre alle smisurate dimensioni, alcune pietre hanno numerosi lati, e presentano tagli a coda di rondine. Pensare ad un “miracoloso estratto” che le potesse rendere plasmabili nelle forme volute è allettante. C’è la possibilità da parte degli Incas, di avere ottenuto il rammollimento della pietra attraverso qualche processo chimico di origine biologica sconosciuta e attraverso questa duttilità, di essere riusciti ad incastrare perfettamente una pietra a fianco o sopra le altre in modo tale da non avere il più piccolo spazio vuoto tra i vari massi?





Le leggende di molti popoli precolombiani e peruviani sostengono che gli dei avevano fatto due doni ai nativi in modo che potessero effettuare opere architettoniche colossali, come Sacsayhuaman e Machu Picchu. Questi doni sarebbero stati in primo luogo le foglie di coca, un anestetico potente che permise ai lavoratori di resistere al dolore e alla stanchezza fisica, immaginate lo sforzo che deve aver richiesto la costruzione di tali monumenti, e il secondo sarebbe stato una pianta, dalle proprietà incredibili che, mescolata con vari componenti, trasformava le rocce più dure in una sostanza pastosa e plasmabile. Dobbiamo ammettere che tali leggende fanno parte di quelle notizie, considerate così assurde, che non vengono prese in seria considerazione. Ma se diverse persone ne parlano in circostanze, luoghi e tempi diversi, allora la cosa si rende interessante.




Il Colonnello Percy H. Fawcett, esploratore e studioso di civiltà precolombiane, scomparso mentre era impegnato nella ricerca di una città perduta nella zona del fiume Xingù (Rio Amazzonia), era fermamente convinto che i costruttori preistorici ammorbidissero le pietre così da modellarle e trattarle facilmente, come un impasto di cemento, per adattarle fra loro. Gli fu riferito, in Perù, che alcuni archeologi americani, mentre studiavano uno dei tumuli funerari, conosciuti come Huacas, nei pressi di Cerro De Pasco, rinvennero un contenitore sigillato, chiamato anch’esso “Huaca”, che gli incaici e preincaici usavano di solito per conservare i liquidi e simili. Trovarono all’interno dell’Huaca un residuo di liquido che tentarono di far bere ad un Indio che era con loro; ma questi fuggì rompendo il recipiente. Gli ingegneri notarono più tardi che la pietra su cui il recipiente si era rotto, era divenuta morbida e malleabile, per ritornare dura successivamente. Tale liquido sembra fosse ricavato da una pianta sconosciuta.

Lo stesso Colonnello Fawcett, in uno dei suoi diari, relazionò che dei minuscoli uccelli delle Ande si scaverebbero il nido creando delle buche nelle rocce lungo i corsi d’acqua. Osservò che prima di compiere questo lavoro di “trapanazione”, strofinavano sulla pietra la foglia di una pianta. Episodio che ha le sue stranezze: non viene citato il tipo di uccelli, non viene spiegato se anche il loro becco subiva corrosioni e Fawcett non fu in grado di individuare le foglie.


Anche Hiram Bingham, scopritore della città perduta di Macchu Picchu, fu portato a conoscenza dell’esistenza di una pianta con i cui succhi gli Incas ammorbidirono le pietre in modo da poterle adattare perfettamente. Esistono documenti ufficiali su questa pianta di cui parlarono i primi cronisti spagnoli. Bingham riportò questa testimonianza:
“Un giorno, mentre ero accampato presso un fiume roccioso, osservai un uccello in piedi su di un masso con una foglia nel becco e vidi come l’uccello depositava la foglia sulla pietra e la beccava. L’uccello tornò il giorno successivo, a quel punto si era formata una concavità dove c’era stata la foglia. Con questo metodo, aveva creato una “coppa” per raccogliere e poter bere l’acqua che vi si era raccolta dentro”







L’archeologia classica fu scossa nel 1983, quando la catena spagnola RTVE emise il documentario televisivo The Other Perù, come parte della serie emessa dal famoso psichiatra e ricercatore Jimenez del Oso. In questo programma fu messo in mostra uno dei più grandi enigmi dell’antico Perù, durante il quale l’autore intervistò un personaggio insolito: padre Jorge Lira. Padre Lira, un prete peruviano, fu uno dei massimi esperti del folklore andino, autore di numerosi libri e articoli fra cui il primo dizionario da Quechua a Castellano. Il prete viveva in un villaggio vicino a Cusco quando arrivò Jiménez del Oso per intervistarlo su una sua dichiarazione inquietante.

Il prete sosteneva di avere scoperto il segreto meglio custodito degli Incas: una sostanza di origine vegetale in grado di ammorbidire le pietre. Per quattordici anni padre Lira studiò le leggende delle antiche Ande e finalmente riuscì a identificare l’arbusto dello Jotchala, la pianta che, dopo essere mescolata e trattata con altre piante e sostanze, era in grado di convertire la pietra in fango. Gli andini padroneggiavano la tecnica della trasformazione della pietra in un impasto, aveva dichiarato padre Lira in uno dei suoi articoli, ammorbidendo la pietra che veniva ridotta ad una massa morbida e facilmente modellabile. Condusse diversi esperimenti con l’arbusto di Jotchala e riuscì a far sì che una roccia solida si ammorbidisse fino quasi a liquefarsi. Tuttavia, non riuscì ad indurirlo di nuovo, così considerò il suo esperimento un fallimento. Su queste basi l’antropologo e studioso argentino Aukanau, nel suo testo “L’enigma dell’uccello Pitiwe e dell’erba che dissolve la pietra” evidenziò l’esistenza di una pianta considerata medicinale dai Mapuche che cresce negli altopiani andini, dall’Ecuador allo stretto di Magellano. I botanici la chiamano “Ephedra andina” ed è uno dei sospettati di essere la famosa e molto ricercata erba degli Incas. Padre Lira morì nel 1988 e portò nella tomba il segreto della sostanza originale e del suo impiego e fino ad ora nessuno è stato in grado di identificare la strana pianta con precisione e, sebbene molti specialisti azzardino speculazioni, non esistono nemmeno documentazioni accurate per metterlo in relazione con l’Ephedra andina.



In tempi più recenti è stato il ricercatore Peter Tompkins a riaprire il dibattito sulla modellazione della pietra intervenendo nel programma “Stargate Linea di confine”.

Peter Tompkins (Athens, 29 aprile 1919 – Shepherdstown, 24 gennaio 2007) ha trascorso gran parte della sua infanzia in Toscana. Iniziati gli studi ad Harvard, allo scoppio della seconda guerra mondiale finì in Europa come corrispondente di alcuni giornali per poi essere arruolato nei servizi segreti americani. Verso il finire degli anni quaranta ritornò negli Stati Uniti, continuando ad occuparsi di giornalismo e facendo ricerche sull’intervento americano in Italia. Ha pubblicato, in Italia, un libro sul fascismo, “Dalle carte segrete del Duce”, dove esamina documenti sequestrati dall’esercito americano e dimostra, fra l’altro, i legami fra fascismo e massoneria e fra fascismo e chiesa cattolica e descrive il rapporto fra Churchill e Mussolini. Accanto all’opera di storico della seconda guerra mondiale, ha affiancato quella di studioso delle antiche civiltà, come quella egizia, essendo stato anche l’ispiratore del lavoro di John Anthony West, lo studioso che ha proposto una retrodatazione della Sfinge di Giza. Di questo lavoro è stato pubblicato in Italia, un bel libro, “La magia degli obelischi”.
Tompkins si pose il problema di come fu possibile trasportare blocchi pesanti centinaia di tonnellate su una montagna andina. E non solo. Molti di questi blocchi sono sagomati in modo particolare, in maniera da potersi incastrare perfettamente con blocchi complementari. E non dimentichiamo un particolare importante: i popoli del sud America non conoscevano la ruota. In una delle puntate di “Stargate Linea di confine”, Tompkins, anche in relazione alla costruzione degli enormi blocchi di costruzione delle Grandi Piramidi d’Egitto, affermò dell’esistenza di una erba rossa alta più o meno 25 cm, capace di sciogliere la pietra e poi di riaggregarla nella forma voluta. L’idea è che gli antichi, conoscendo tale pianta, costruivano delle forme, le riempivano di ciottoli di pietra, poi ci buttavano un estratto di questa pianta che li trasformava in forma semi-liquida e poi aspettavano che il tutto ritornasse in forma solida. Una caratteristica delle pietre megalitiche così ottenute è di essere piuttosto regolari e ben levigate. Il problema è dimostrare l’esistenza di questa erba rossa. Tompkins ha citato alcune testimonianze scritte e da lui ritrovate. La prima di questa risale a circa 2 secoli fa ed è un racconto riportato da un viaggiatore statunitense di Boston che riporta di come erano costruiti i grandi templi mesoamericani grazie all’utilizzo di una pianta misteriosa. Una seconda testimonianza risale all’inizio del 900 e vede protagonista un inglese che, in un suo viaggio a cavallo, è costretto a proseguire a piedi perché il cavallo si era azzoppato. Chiaramente indossava degli speroni, ma questi misteriosamente si dissolsero nell’attraversamento di un prato di erba rossa.

Fin qui emergono solo testimonianze storiche, ma esiste un ulteriore prova anche se indiretta. Si tratta dell’esperimento dell’ingegnere francese Joseph Davidovits, studioso di agglomerati che è riuscito a realizzare delle rocce calcaree pesanti tonnellate partendo da calcare sbriciolato. Ha studiato la sabbia di Giza ed ha constatato che è di tipo argilloso e partendo da quest’elemento e aggiungendovi un sale, della calce e dell’acqua ha realizzato dei blocchi del tutto simili a quelli delle grandi piramidi. Da notare che ha utilizzato “ingredienti” conosciuti agli antichi egizi, e quindi è pensabile che abbiano potuto inventare questo sistema. L’esperimento di Davidovits è forse meglio approfondirlo in un articolo dedicato. Per il momento è interessante constatare che l’esperimento sembra confermare, anche se in maniera indiretta, l’ipotesi di Tompkins. Le differenze fra le due tecnologie ci sono, da una parte un calcestruzzo inventato dall’uomo, dall’altra parte una erba particolare capace di sciogliere le pietre. Ora bisogna attendere la prova definitiva, cioè il ritrovamento di questa pianta, sperando che nel frattempo non sia estinta. In effetti, considerando il gran numero di opere megalitiche realizzate dai popoli mesoamericani, è ipotizzabile un massiccio sfruttamento di questa erba che l’ha portata a sopravvivere solo nei posti più impervi. Il ritrovamento di questa erba cambierebbe notevolmente le nostre teorie sui popoli antichi e ciò che ora sembra assurdo tornerebbe ad avere una spiegazione razionale.
Appendice


Alcuni ricercatori indipendenti teorizzano che le costruzioni distinte da una maggior precisione realizzativa siano precedenti alla cultura incaica e che quest’ultima le abbia soltanto riutilizzate inglobandole nelle proprie strutture architettoniche.


2 comments
Bell’articolo Sandro, ben dettagliato e denso di riferimenti. Interessante la possibilità di un succo vegetale in grado di liquefare la pietra. ma io propendo per la versione dei ricercatori indipendenti, sono molto più antiche. la cosa curiosa sono quelle protuberanze tipo capezzoli che sporgono alla base di alcune pietre… roba incredibile! Il tempio del Sol poi… un’opera che lascia senza fiato!!!
Concordo sul fatto che alcune strutture siano preesistenti a quelle incaiche. Non scordiamoci le enigmatiche rovine di Puma Punku e Tiahuanaco, è evidente che civiltà precedenti hanno realizzato in quell’area delle strutture ancora oggi da decifrare. Le evidenze di questo sono molteplici e, in alcuni casi ben specifici, inequivocabili. Grazie Massimo!